La paternità vissuta

Le teorie dello sviluppo psicologico dell’individuo hanno da sempre sottolineato l’importanza del legame madre-bambino, in particolare nei primi 2-3 anni di vita.

Secondo la teoria dell’attaccamento di J. Bowlby i comportamenti e le attenzioni del bambino in questa fase della vita si dirigerebbero verso un’unica figura che coinciderebbe, in assenza di condizioni particolari, con la madre biologica. D. Winnicot sottolinea l’importanza della “preoccupazione materna primaria”, vale a dire di quello stato di attenzione selettiva che consente alla madre di rispondere in maniera adeguata ai bisogni del bambino fin dai primi giorni di vita e anche prima, durante la gravidanza.

Winnicot inoltre comprende l’importanza del gioco ed in particolare del gioco transazionale, vale a dire quella particolare situazione di gioco nella quale il bambino utilizza un oggetto come viatico per far fronte alla frustrazione ed al dolore derivanti dal distacco con la figura primaria di attaccamento.
Anche la psicoanalisi ortodossa ha affermato l’importanza di un oggetto libidico unico ed esclusivo nei primissimi momenti della vita del bambino, incarnato nel seno materno, e solo successivamente nella madre nel suo complesso.

A ben vedere esiste tutta una costellazione di teorie che porterebbe a pensare che la salute e il disagio del bambino dipenderebbero, almeno nella primissima infanzia, esclusivamente dalla qualità della relazione diadica con la madre.

 

L’importanza della figura del padre

In realtà lo stesso Bowlby ammise l’esistenza di attaccamenti plurimi, anche se non ne approfondì la natura; inoltre si può supporre che Winnicot stesso avesse intuito che è il padre, e non l’oggetto transazionale, il primo mediatore della relazione madre-bambino.

La psicoanalisi lacaniana, dal canto suo, ha approfondito l’importanza della mancanza della figura paterna nell’insorgenza della psicopatologia psicotica nell’individuo riducendo, almeno in parte, lo sbilancio dell’attenzione dedicata alle due figure genitoriali.

Di fatto, nella misura in cui il padre viene considerato un accessorio non necessario nella crescita e nello sviluppo psicologico del bambino, le ricerche e la clinica stessa finiscono per occuparsi solo superficialmente degli aspetti legati alla paternità, dando in tal modo un’importanza marginale alle interazioni padre-bambino e alla qualità di tale relazione sulla vita e sullo sviluppo dell’individuo.

Alcune recenti ricerche tuttavia hanno rivalutato l’importanza della figura paterna fin dai primissimi momenti di vita.

Il gruppo di ricerca dell’Università di Losanna coordinato da Elizabeth Fivaz-Depeursinge ha analizzato le interazioni triadiche precoci madre-padre-bambino attraverso una procedura sperimentale che ha consentito di raggiungere delle conclusioni abbastanza originali: tali studi infatti hanno portato E. Fivaz-Depeursinge a sostenere che il bambino fin dai primi mesi di vita mostra una propensione innata ad interagire con due o più persone, mostrando di possedere una matrice relazionale che funge da organizzatore non solo dell’esperienza sociale e interpersonale, ma anche dello sviluppo cognitivo.

Il bambino piccolo è quindi capace di stabilire una forma di comunicazione caratterizzata da scambi armoniosi (intersoggetività primaria) sia con la madre che con il padre, figure con le quali entra in una “sintonizzazione affettiva” (Daniel Stern) che permette di stabilire precocemente relazioni significative.

Tali considerazioni ci portano ad aprire uno scenario nuovo sull’importanza della figura paterna fin dalle prime fasi dello sviluppo dell’individuo. Di fatto le attenzioni dei ricercatori sono state rivolte quasi esclusivamente al mondo emotivo delle madri e a come questo influenzi lo sviluppo del bambino.

Dei padri in sostanza si sa poco e si dedica loro poca attenzione.
Tale mancanza è probabilmente dovuta almeno in parte al fatto che i padri del passato erano caricati da una forte valenza normativa, ma assai scarsi nell’assolvimento delle funzioni affettive. La letteratura attuale parla di padri assenti e imputa alla loro latitanza educativa molte delle problematiche dell’età evolutiva, con particolare riferimento all’età pre-adolescenziale e adolescenziale. L’approccio psicodinamico ha affermato a più riprese che al padre spetta il difficile compito di collocarsi al centro della relazione di accudimento primario madre-figlio.
Il suo compito sarebbe quello di modulare tale simbiosi primaria agendo su un duplice fronte: da una parte “privando” il bambino dell’oggetto del suo investimento affettivo primario ed “educandolo” in tal modo al passaggio dalla “logica del bisogno” (che non ammette la frustrazione) alla “logica del desiderio” (caratterizzata da un certo grado di tolleranza alla frustrazione del desiderio); dall’altra parte fungendo da base affettiva sicura per la propria compagna, che può in tal modo esprimere quella “preoccupazione materna primaria” che le consente di comprendere la natura dei bisogni del neonato.

Emerge quindi la rilevanza di un ruolo di mediazione e sostegno del nucleo familiare che oggi, più di ieri, risulta molto impegnativo ed oneroso in termini di energie e di risorse psicofisiche.

Ma i padri di oggi sono capaci di accogliere questa sfida?

Un recente studio di Paulson, Dauber e Leiferman (2006) ha cercato di dare una risposta a questa domanda.
Su un campione significativo di 5.089 famiglie questa ricerca ha individuato che l’incidenza di sintomi depressivi tra i neopadri raggiungeva il 10% della popolazione. Tale costellazione sintomatologica era inoltre correlata a pratiche di interazione e accudimento più scadenti della norma (effetto che si riscontra anche nelle madri con depressione post-parto). Ma è poi così rilevante per il sano e fisiologico sviluppo psicologico del bambino che la funzione paterna non sia compromessa, oppure, come si potrebbe pensare, tale funzione ha una rilevanza secondaria tale da poter essere ben compensata da un buon accudimento materno?
Una interessante ricerca di Ramchandani et al. (2005) svolta su un campione di ben 8.431 neo-padri ha dato una risposta chiara ed inequivocabile a tale domanda dimostrando che la depressione paterna nel periodo post-natale è associata a disturbi emotivi e comportamentali che il bambino manifesta attorno ai 3 anni e mezzo, con particolare evidenza di disturbi nella condotta nei figli maschi. Ciò conferma l’ipotesi della rilevanza del ruolo paterno fin dai primissimi momenti di vita del bambino.
Sembra inoltre che, almeno per quel riguarda la realtà italiana, le difficoltà dei neopapà siano in gran parte di carattere culturale: come emerge da uno studio condotto su 600 neo-padri in cinque ospedali piemontesi, gli uomini sanno che con l’avvento di un figlio la loro vita cambierà drasticamente, ma non sono capaci di comunicare in modo costruttivo e positivo la loro esperienza della paternità, confermando e rafforzando in tal modo lo stereotipo dell’uomo poco competente in quella comunicazione di stampo emotivo, attenta alle sfumature intrapsichiche, che consente di generare empatia e auto-aiuto sul fronte del “sentire”.

Dunque costatiamo in sintesi che:
1.Il bambino mostra una matrice relazionale innata che gli consente fin dai primi mesi di vita di interagire con due o più persone in maniera significativa.
2.Anche i neopapà, seppure in parcentuale inferiore rispetto alle neomamme, corrono il rischio di soffrire di sintomi depressivi nel periodo successivo alla nascita di un figlio.
3.Quando ciò accade lo sviluppo psicologico del bambino ne risente, con insorgenza, nei primi 3 anni e mezzo di vita, di disturbi emotivi e comportamentali.
4.Il rischio per i neopapà di incorrere nella sintomatologia depressiva post-natale aumenta in relazione alla difficoltà nel comunicare i propri vissuti emotivi e nel reperire all’interno della propria rete relazionale persone in grado di ascoltarli in maniera empatica.

Alla luce di tali considerazioni mi sento di sottolineare, da psicologo e da neopapà, che le straordinarie capacità di interazione dei nostri figli ci consentono di affrontare la sfida della paternità con la speranza di trasmettere loro qualcosa di positivo, se solo ci diamo la possibilità di trovare degli spazi di ascolto ed espressione dei nostri vissuti emotivi.
In questo percorso giocano un ruolo fondamentale le madri, che devono essere disponibili a mettersi da parte per chiamare in causa il proprio compagno nell’accudimento del neonato.
Infatti l’opportunità per il padre di interagire precocemente con il proprio figlio, rispondendo efficacemente ai suoi bisogni, favorisce il processo di ridefinizione della propria identità verso un’immagine positiva di sè assieme al bimbo.
Se ciò avviene la triade madre-padre-bambino diviene un luogo carico di affettività e interazioni positive che favorisce lo sviluppo del bimbo ed il benessere della coppia genitoriale.

Nella mia esperienza clinica, ma soprattutto di counseling scolastico e genitoriale, ho potuto osservare quanto tale stato di benessere influenzi l’equilibrio emotivo dei figli in ogni fase della loro crescita.
Spesso infatti accade che un sintomo emotivo o comportamentale di un bambino o di un preadolescente receda, a volte fino a scomparire, se i genitori riescono a prendersi efficacemente cura del proprio benessere psicologico o a risolvere i propri conflitti relazionali.

È evidente che una condizione necessaria per una buona genitorialità consiste nell’imparare ad amare e prendersi cura di se stessi: i bambini infatti fin da piccolissimi si rispecchiano nei volti che incontrano e ciò consente loro di apprendere istintivamente l’emotività e di arricchire il loro repertorio espressivo in relazione alla serenità e all’espressività delle persone con quali interagiscono, e in primo luogo dei propri genitori.





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